Piante velenose | Piante e veleni

Piante e veleni

Nella società moderna, che quotidianamente propone un’ampia gamma di prodotti, dai più comuni a quelli più esotici, a prezzo accessibile e semplici da reperire, sembra incomprensibile l’esigenza di cercare in natura vegetali selvatici a scopo alimentare. Invece, ancora oggi, la popolazione vede nella natura una ricca risorsa di alimenti sani e/o salutari, e trova nella loro ricerca e nella loro preparazione motivo di svago e soddisfazione personale (Ghirardini et al., 2007). Le piante che crescono allo stato spontaneo possono essere raccolte da tutti, ma purtroppo la maggior parte delle persone, soprattutto nelle città, non dispone più di quella conoscenza legata all’antica cultura rurale, che permetteva di distinguere le erbe selvatiche “buone” da quelle “cattive”. A questo pericolo se ne aggiunge un altro, molto attuale e parimenti grave: il pubblico mostra una grande fiducia in tutto ciò che è “naturale”, con la pregiudiziale convinzione, fomentata da certa comunicazione di massa, che il naturale è necessariamente buono, migliore, sicuro. Tale convinzione è radicata nel luogo comune secondo cui un prodotto naturale, non contenendo additivi chimici, è sempre buono e innocuo. Tutto questo, purtroppo, non corrisponde a verità e il presente volumetto intende dimostrarlo.

Ovviamente qualsiasi pianta, fungo o estratto naturale contiene al suo interno migliaia e migliaia di principi attivi, alcuni con effetti positivi per l’organismo umano, altri senza effetti e altri ancora con effetti decisamente negativi.

Premesso che il fai da te con le erbe medicinali è pratica pericolosa dalla quale astenersi, l’errore elementare in cui più frequentemente cade chi il fai da te lo applica alle piante selvatiche deriva dall’inesperienza e dall’ignoranza botanica: consiste nello scambiare una pianta per un’altra, con il grave rischio che, appunto, la prima possa essere tossica, come di fatto troppo spesso accade (Colombo et al., 2006, 2010a, 2010b; Davanzo et al., 2011).

Il problema, tuttavia, non è limitato alle sole specie selvatiche raccolte per il consumo: perfino nei parchi pubblici e nei giardini delle abitazioni private e delle scuole vengono coltivate specie tossiche, talvolta anche potenzialmente letali per l’uomo o per gli animali domestici (oleandro, tasso, cycas ecc.), senza alcun avvertimento della loro pericolosità, né barriere che ne impediscano la raccolta o il contatto. Inoltre presso vivai e fioristi si possono trovare, senza difficoltà, piante da appartamento, esotiche o autoctone, prive di qualsivoglia indicazione di tossicità, mettendo così seriamente a rischio la salute dei bambini e degli animali domestici (Berny et al., 2010; Davanzo et al., 2009; Vivisenco & Babaca, 2009).

Perché ci si può confondere nella raccolta delle piante selvatiche? Sfortunatamente si tratta di banali, ma non meno fatali errori di identificazione delle piante al momento della raccolta. In primavera molte erbe selvatiche vengono raccolte a uno stadio di crescita iniziale, quando sono ancora tenere e carnose, con foglie da poco spuntate o non ancora sviluppate, il più delle volte ben lontane anche dal fiorire. In questo particolare momento esse presentano un aspetto del tutto differente da quello che le identifica a sviluppo ultimato, cioè quando i fusti si sono definitivamente allungati, le foglie dispiegate e sono presenti i fiori o magari anche i frutti (come gli esemplari maturi delle foto e dei disegni riportati nei manuali e nelle guide botaniche, facilmente memorizzabili dal lettore).

Da questa considerazione prende le mosse il presente volumetto, il quale infatti

è  stato concepito allo scopo di illustrare attraverso fotocolor dedicati i soggetti vegetali fonte di possibile avvelenamento, così come si presentano al momento effettivo della raccolta. Accanto a detti soggetti vengono riportati, sempre ripresi al medesimo stadio di sviluppo, i corrispondenti innocui delle specie commestibili con le quali può verificarsi il pericoloso scambio. Tossico o commestibile, per ogni soggetto (talora inclusivo di più specie strettamente affini) viene fornita una descrizione morfologica di sufficiente dettaglio e quanto ai termini tecnici in questa contenuti, il lettore, in caso di necessità, può adire a un apposito glossario.

Le piante tossiche sono solo un pericolo?

Le piante velenose e loro parti, ovviamente, non devono essere ingerite e talvolta nemmeno toccate casualmente o per errore. Al di là del potenziale danno che esse sottendono, sono invece di grande utilità sanitaria, soprattutto dal punto di vista farmaceutico. Infatti è bene sottolineare che ogni pianta velenosa contiene principi chimici ad azione tossica, spesso letale, che tuttavia possono essere proficuamente impiegati nella preparazione di farmaci, non di rado salvavita. Ricordiamo ad esempio le specie del genere Taxus (T. baccata, T. brevifolia, T. cuspidata ecc.), piante tradizionalmente note come “albero della morte” per l’elevata tossicità delle loro parti verdi e dei semi. Ebbene, a partire dagli anni ’90 del passato secolo, da parti diverse dell’albero della morte si ricava un principio attivo altamente tossico, il tassolo, per altro essenziale nel trattamento di alcune forme tumorali che colpiscono l’utero e le ovaie. I casi di questo tipo che si potrebbero elencare sono davvero tanti: Digitalis purpurea e specie correlate, impiegate nella terapia dell’insufficienza cardiaca; alcune specie di Solanaceae, utilizzate nella preparazione di antispastici; Papaver somniferum detto papavero da oppio, da cui si ricavano morfina, papaverina, codeina, tebaina e molti altri composti; e gli esempi potrebbero continuare.

In questo campo, dunque, soltanto la conoscenza, stimolata dalla curiosità del sapere e dal desiderio di essere informati, ci permette di evitare seri guai per la nostra salute e per quella delle generazioni più fresche, cui, da parte di quelle meno fresche, si impone il compito di trasmettere tutta l’esperienza del caso. In pratica, stiamo dicendo che anche per prevenire i rischi di avvelenamento è necessario studiare e imparare.

Perché le piante producono così tante sostanze tossiche?

A ben pensarci, i veleni che possiamo evocare mentalmente sono per massima parte di derivazione vegetale, in parte minore minerale e meno di tutti animale. Per spiega-re il fatto, l’interpretazione scientifica mondialmente più accreditata è che le piante, ancorate al terreno con le radici, non sono in grado di darsela a gambe di fronte alla minaccia di un predatore e si sarebbero quindi dotate, attraverso ripetute e incessanti pressioni selettive, di sostanze chimiche tossiche, atte a dissuadere certi animali dal mangiarle o certi parassiti dall’attaccarle. Tali molecole, con tossicità più o meno elevata, sono tradizionalmente chiamate “metaboliti secondari”, poiché, quando si iniziò a studiarle, furono interpretate come componenti del metabolismo non indispensabili alla vita della pianta e perlopiù da intendersi in termini di “escreto”. Oggi, invece, esse appaiono sostanze essenziali per la sopravvivenza delle piante che le producono, nella loro vita di relazione con il mondo animale, fungino e batterico. Nella Figura 1 viene riportato uno schema semplificato delle principali classi di metaboliti secondari che la pianta sintetizza. Grazie alla loro presenza, la performance antipredatoria della pianta si espleta, di norma, sulla capacità di apprendimento del predatore: un animale (uomo compreso), dopo aver ingerito parti tossiche di una pianta subendone conseguenze più o meno pesanti, non tornerà a ripetere l’errore, anche perché la pianta avrà lasciato ben impresso nella memoria olfattiva dell’animale il proprio odore identificativo, segnale di guai da cui tenersi alla larga. A questo proposito occorre sottolineare che moltissime piante velenose, in aggiunta ai principi tossici, sintetizzano composti volatili sgradevoli e repellenti, percepibili talvolta anche a distanza, allo scopo di dissuadere potenziali predatori dall’intraprendere qualsiasi iniziativa nei loro confronti; è quello che si potrebbe definire un educato avvertimento. Negli animali sociali capaci di trasmissione culturale, la disavventura intossicatoria di un

Fig. 1 - Schema di biosintesi dei principali metaboliti secondari.

Fig. 1 – Schema di biosintesi dei principali metaboliti secondari.

componente funziona da esempio per tutta la comunità. È noto che l’interazione fra preda e predatore si è dipanata attraverso i milioni di anni in un susseguirsi senza fine di botte e risposte fra le parti, con animali che venivano selezionati dai veleni vegetali, diventando capaci di detossificarsi e piante che venivano selezionate dal predatore, diventando capaci di produrre nuove molecole tossiche. Bisogna anche dire che per alcune di queste sequenze botta/risposta, l’ostilità fra le parti andò via via attenuandosi fino a trasformarsi in collaborazione (simbiosi), con la graduale “scoperta” di reciproci vantaggi derivanti dal vivere l’una per l’altra.

Le piante, quindi, producono migliaia di sostanze chimiche, anche differenti da specie a specie, impiegate per tener lontani i predatori; fra questi, per esempio, ci sono certi vermi del terreno (nematodi), che attaccano le radici. Tutte queste sostanze chimiche ad azione tossica ne includono alcune prodotte da certe piante per impedire ad altre di espandersi sui loro “territori”, in altre parole allo scopo di minimizzare la competizione sul terreno. Ad esempio, molti avranno osservato come sotto un albero di noce (Juglans regia) difficilmente crescano altre piante. Il motivo sta nel fatto che il noce, nelle foglie, nel fusto e nelle radici, produce una molecola, lo juglone, atta a inibire e/o rallentare la crescita di qualsiasi altra pianta tenti di svilupparsi nella sua area di influenza. Lo juglone, dunque, appartiene a quella categoria di sostanze dette allelopatiche, in grado di condizionare la crescita di altre piante nell’area di influenza di quelle che le producono. Riguardo all’esempio in oggetto, poche piante sono capaci di crescere nell’area di influenza del noce e queste piante sono infatti insensibili allo juglone come probabile risultato di pressione selettiva esercitata dalla sostanza in questione. L’allelopatia può essere definita come produzione di composti chimici fitotossici da parte di una specie per ostacolarne un’altra (è detta anche competizione chimica). Molte piante terrestri (cioè non acquatiche) liberano sostanze allelopatiche che inibiscono l’attecchimento o l’accrescimento di piante di altre specie nei loro dintorni: per esempio i pini, il carpino bianco, la salvia che libera terpeni volatili e gli eucalipti australiani i cui olii, tra l’altro, favoriscono gli incendi della lettiera. Vi sono anche animali, fra i parassiti, che con meccanismi tipicamente allelopatici inducono il sistema immunitario dell’ospite a bloccare l’ingresso a potenziali competitori. Le sostanze allelopatiche delle piante -manco a dirlo- possono essere utilizzate come erbicidi naturali, con il vantaggio della ecosostenibilità. I prodotti del metabolismo secondario sono in pratica gli intermediari chimici che servono alle piante per comunicare con l’ambiente che le circonda, incluso l’intero mondo biologico, allo scopo di espletare al meglio il proprio mandato vitale (Fig. 2).

Fig. 1 - Schema di biosintesi dei principali metaboliti secondari.

Fig. 1 – Schema di biosintesi dei principali metaboliti secondari.

Per quanto riguarda il mondo animale, è interessante osservare che non si riscontra una gamma così vasta e chimicamente così variegata di sostanze ad azione tossica. Escludendo le tossine specifiche di meduse, aracnidi, insetti, anfibi e rettili, riducibili a scarse e ripetitive tipologie molecolari, l’arsenale chimico più ricco è detenuto dagli animali marini che vivono ancorati ai fondali (zoobenthos), tra cui ricordiamo le spugne, le madrepore e i coralli. Si tratta di organismi fissati al substrato, che, non avendo possibilità di spostarsi per sottrarsi fisicamente alle minacce predatorie, mettono in funzione un presidio molecolare difensivo producendo svariate sostanze ad attività sia citotossica sia, di risvolto, antimalarica, antibiotica, antitumorale e quant’altro. Nel complesso, almeno il 10{65f2e28177c94f2951789cdb189ff701d60484d918a169e513d16f7e82a02d40} dello zoobenthos marino produce sostanze citotossiche o con spiccate proprietà antimicrobiche e/o antivirali. Come abbiamo visto, è l’area del metabolismo secondario a fornire la maggior parte delle sostanze naturali farmacologicamente attive, pertanto, stabilito che per farmaco s’intende un composto chimico in grado di contrastare o prevenire una patologia, sussistono elevate probabilità di continuare a scoprire nuovi farmaci proprio tra i metaboliti secondari, sia vegetali sia animali.

Oggi, nonostante la crescente introduzione di farmaci sintetici, circa il 45{65f2e28177c94f2951789cdb189ff701d60484d918a169e513d16f7e82a02d40} degli agenti terapeutici monomolecolari riportati nelle farmacopee sono di origine naturale o derivano direttamente da molecole naturali. La diversità chimica che caratterizza le molecole naturali fa dell’esplorazione delle caratteristiche biologiche di queste ultime non solo una delle principali fonti per la ricerca di nuovi composti a vocazione di farmaco, ma anche uno strumento funzionale alla scoperta di nuovi meccanismi d’azione fisiologica.

Metaboliti secondari vegetali: come si legano alla vita umana?

Per molto tempo gli scienziati si sono arrovellati nel tentativo di spiegare perché le sostanze chimiche vegetali svolgano un ruolo così importante, in positivo e in negativo, nella biologia dell’uomo. Tra le numerose ipotesi proposte, quella attualmente più attesa e condivisa è denominata della “xenormesi” o anche teoria xenormetica (Calabrese & Baldwin, 2002; Calabrese, 2004; Howitz & Sinclair, 2008; Hooper et al., 2010). L’etimologia di questo neologismo ad hoc, coniato su radici greche, ce ne anticipa il contenuto: “xenos” = esterno, che viene da fuori e “ormesi” (come ormone) dal verbo “hormao” = stimolo, induco, promuovo, influenzo.

I metaboliti secondari di origine vegetale sono dunque sostanze chimiche che provengono dall’esterno del nostro organismo e sono in grado di influenzare la nostra vita. Ad esempio, l’estratto di valeriana ci aiuta a riposare meglio, le vitamine contenute nella frutta e nella verdura ci permettono di vivere con un certo benessere allontanando da noi malattie anche gravi (es.: lo scorbuto per carenza di vitamina C), le sostanze colorate presenti nella frutta e nella verdura agiscono come antios-sidanti e anche come preventivi antitumorali, ecc. Parimenti, dobbiamo però anche ricordare gli esempi negativi dei veleni, tra cui la stricnina contenuta nei semi della loganiacea Strychnos nux-vomica, la coniina del succo della cicuta maggiore Co-nium maculatum subsp. maculatum (Socrate ne seppe qualcosa), l’acido cianidrico (acido prussico) dei semi delle mandorle amare, la nicotina del tabacco ecc.

Secondo la teoria xenormetica, centinaia se non migliaia di milioni di anni fa, agli albori della vita sul pianeta, tutti gli organismi viventi (ben pochi rispetto agli attuali) erano in grado di produrre metaboliti secondari. Poi, con il procedere dell’evoluzione, gli animali avrebbero gradualmente perduto tale capacità, pur continuando a ricevere tali sostanze nella vita quotidiana. La spiegazione starebbe nel fatto che, comunque, gli animali continuarono a nutrirsi di vegetali introducendo con la dieta quei metaboliti secondari che li avrebbero dispensati dal doverli sintetizzare di-rettamente. In conclusione, i metaboliti secondari esercitano un’azione di primo piano sul nostro vivere, similmente agli ormoni e come questi inducono risposte fisiologiche specifiche da parte del nostro organismo.

Alla fine si può affermare che la lunghissima coevoluzione tra animali e vegetali ha predisposto anche il nostro organismo a ospitare al suo interno complesse miscele di metaboliti secondari provenienti dalle piante, metaboliti che, attraverso specifici passi selettivi, il nostro organismo (come quello degli altri animali) ha trasformato via via in modulatori di risposte fisiologiche. Questo processo evolutivo, noto appunto come xenormesi, è dunque alla base del contatto fra l’organismo animale e i prodotti di un metabolismo secondario che esso non sintetizza al suo interno, ma che introduce dall’esterno ricavandoli da organismi produttori, nella fattispecie le piante. Una riprova della modulazione adattativa raggiunta dall’organismo animale sotto le pressioni selettive dei metaboliti secondari sta per esempio nel fatto che un metabolita secondario, tossico in quantità medioalte, a basse dosi spesso esercita sull’organismo un’azione benefica, un’azione da debole agente stressorio. In conclusione, ciò che vale per le piante vale anche per gli esseri umani: stimolato da un debole agente stressorio, il nostro organismo, in temporaneo squilibrio metabolico, reagisce positivamente riportandosi entro i parametri dell’omeostasi.

Si ringrazia la Società Italiana di Scienze Naturali Corso Venezia 55, 20121 MILANO Tel. e Fax 02-795965 e-mail: [email protected]

Tutti i diritti riservati Autori: Enrico Banfi , Maria Laura Colombo, Franca Davanzo, Chiara Falciola, Gabriele Galasso, Emanuela Martino e Sandro Perego

Per scaricare il PDF Piante velenose della flora italiana nell’esperienza del Centro Antiveleni di Milano - Milano, Giugno 2012 – Volume 102 – Fascicolo 1 

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