Come leggere le schede delle piante velenose

Impostazione delle schede

Simbolo di tossicità

Nell’angolo superiore destro di ogni scheda è presente un ideogramma indicante il grado di tossicità, di cui sono stati distinti 4 livelli in base a un’attenta valutazione dei sintomi che potrebbero insorgere a seguito di esposizione.

pianta mortaleMortale. La pianta non è commestibile e il suo utilizzo può risultare particolarmente dannoso, provocando la morte nei casi più gravi.

 

pianta nocivaNociva. La pianta non è commestibile e l’ingestione accidentale e/o volontaria di frutti, foglie, fi ori, radici può dare luogo a sintomi, spesso a carico dell’apparato gastroenterico, anche particolarmente gravi.


pianta pericolosaPericolosa
. La pianta è di fatto commestibile e viene comunemente utilizzata a fi ni alimentari, ma parti di essa, linfa, latice e/o un suo utilizzo improprio possono rendere rischiosa l’esposizione.

 

pianta commestibileCommestibile. La pianta risulta edule e dunque il suo consumo non è da considerarsi dannoso per l’organismo.

 

Titolo e introduzione della scheda

Si è scelto di adottare per questa voce il nome comune italiano della pianta trattata, attinto a quanto già in uso (Pignatti, 1982; Banfi & Galasso, 2010), allo scopo di facilitare al lettore occasionale o al non addetto ai lavori un approccio che potremmo definire psicosemantico, in apertura all’argomento. Sotto il nome italiano è indicato il nome scientifico sulla base di quanto detto nei precedenti paragrafi ; in qualche caso la scheda è riferita a una collettività di specie simili ed equivalenti sul piano tossicologico, anziché a una sola di queste, per cui al posto dell’epiteto è indicato un generico spp. (=species plures) oppure addirittura la sezione (gruppo di specie affini all’interno del genere) coinvolta. La nomenclatura segue la checklist della fl ora vascolare (felci e piante superiori) italiana (Conti et al., 2005, 2007) e successivi aggiornamenti. Aggiungiamo che a fianco del binomio ufficiale possono essere riportati tra parentesi uno o più sinonimi (da non usare) quando questi siano particolarmente noti perché ancora impiegati in testi non aggiornati. A questo proposito -il lettore non si spaventi- il sinonimo può essere preceduto da un segno = oppure ≡ a seconda che la sinonimia sia, rispettivamente, eterotipica (tassonomica) od omotipica (nomenclaturale). Spieghiamo: premesso che la specie è sempre quella, il primo caso si pone quando all’origine essa è stata battezzata più volte con due o più epiteti diversi basati su esemplari distinti, vale a dire esistono nomi e tipi (tipo è di norma un esemplare d’erbario convenzionalmente designato come portare dell’epiteto) diversi per la stessa specie; nel secondo caso, invece, sul medesimo tipo, cioè sull’unico epiteto, sono basate combinazioni non valide ai sensi dell’ICBN o, se valide, differenti da quella stabilita come ufficiale. Dopo il nome scientifico, viene indicata tra parentesi la famiglia d’appartenenza della specie. Ricordiamo, a titolo storico, che l’idea di riunire generi tra loro affini in famiglie non venne a Linneo, ma al suo allievo francese Antoine Laurent de Jussieu (1748-1836) e che questa sia stata un’intuizione vincente lo conferma la scienza attuale, spesso con l’aiuto del DNA, dimostrando che nelle diverse famiglie di piante, calibrate e circoscritte in modo adeguato, si identificano discendenze concrete e coerenti (monophyla) nell’albero genealogico dei generi di piante. Per quanto riguarda la circoscrizione e la nomenclatura delle famiglie, in questo volumetto gli autori si sono attenuti al recente contributo di Reveal (2011), che, attraverso i dati filo genetici ufficiali di APW (Angiosperm Phylogeny Website: 41 Stevens, 2001 onwards), fornisce, a giudizio di chi scrive, il modello attuale più soddisfacente di classificazione delle famiglie, in grado di rappresentare la diversità (cioè il risultato dell’evoluzione) delle piante a un livello di dettaglio sostenibile e sensato. I diversi nomi comuni italiani della specie trattata nella scheda, riportati in caso di denominazioni multiple, risultano più o meno in uso nel linguaggio corrente nazionale (esempi: tasso o albero della morte, sambuco nero o sambuco comune, tamaro o cerasiola o uva tamina o vite nera o viticella, ecc.). Anch’essi possono contribuire con una sorta di aggancio orientativo quando si debba risalire all’identità della specie. Le specie velenose, come si è detto, presentano in molti casi una o più controparti innocue commestibili alla base della confusione che provoca gli episodi di intossicazione. Per tale motivo si è ritenuto necessario indicare subito e in modo evidente, fra l’intestazione della scheda e la descrizione della specie, quali sono i soggetti eduli scambiabili con la specie pericolosa (e viceversa), soggetti per altro poi trattati in apposite schede.

Morfologia

In questa voce viene descritta abbastanza succintamente la specie trattata, con la presentazione dei più evidenti caratteri vegetativi (habitus, fusti, foglie ecc.) e riproduttivi (fiori, frutti, semi). In alcuni casi (per esempio specie collettive come Gentiana sect. Gentiana) la descrizione, sviluppati gli aspetti generali comuni al gruppo, si sposta sui caratteri differenziali di una o più delle specie coinvolte, per consentire un riconoscimento di dettaglio. Qui, più che in altre voci della scheda, compaiono i termini tecnici usati in morfologia vegetale, per i quali, laddove ritenuto necessario, è possibile consultare un apposito glossario in Appendice 2.

Fioritura

Viene indicato l’intervallo mensile di fioritura della specie. Il periodo dell’anno durante il quale una pianta fiorisce (fenantesi) è scritto nel suo patrimonio genetico, così ci sono specie diverse che fioriscono in tempi diversi senza sovrapporsi e specie diverse le cui fioriture risultano più o meno largamente sovrapposte. Tuttavia le cose sono un po’ più complicate, perché sulla pianta influiscono importanti fattori esterni, il più rilevante dei quali è la temperatura. Succede allora che i popolamenti di una specie distribuita dal livello del mare fi no alla fascia montana entrino in fioritura in momenti successivi secondo un’onda di progressione altitudinale: infatti alle quote superiori la primavera climatica (non astronomica) è ritardata rispetto alle quote inferiori e ciò influisce, evidentemente, sui ritmi biologici. Il medesimo discorso, ad altitudine costante, si ripete per la latitudine, cioè per i popolamenti di una specie distribuiti lungo linee orientate da sud a nord nel nostro emisfero e viceversa nell’emisfero australe. Il codice genetico di ogni specie include ampiamente questa possibilità di ritardo e vogliamo precisare che il dato qui riportato si riferisce al periodo fenantetico reale della specie, quello cioè che tiene conto della sua distribuzione altitudinale e latitudinale in Italia; tiene conto anche di certe anomalie (o asimmetrie) dei fattori orografici in grado di influenzare le fioriture. Il clima delle Alpi è strutturato in fasce altitudinali sovrapposte, che tendono ad abbassarsi di quota procedendo dalle Marittime alle Giulie. Qui infatti si osserva che, ad altitudine fissata, i popolamenti di una specie distribuita sull’intero arco alpino subiscono un ritardo di fioritura andando da ovest a est. Tutto ciò si deve al così detto effetto massa, che nelle Alpi occidentali (più massive, appunto) sposta verso l’alto tutte le fasce climatiche, come se in quell’area un intero blocco di superficie terrestre si 42 elevasse verso il cielo, mentre nelle Alpi orientali (di massa inferiore) determina l’effetto contrario. Infine ricordiamo che in Italia esistono incalcolabili situazioni locali, cioè microclimi, generate dalla complessità morfologica e topografi ca, dall’articolazione e distribuzione delle masse d’acqua (mari, laghi, corsi d’acqua) rispetto ai rilievi e dal tasso di industrializzazione, urbanizzazione e asfaltazione delle diverse aree del territorio. Tali microclimi possono anticipare o ritardare la fioritura di qualsiasi specie. Habitat e distribuzione Spesso si fa confusione tra ecologia, habitat e distribuzione di una specie. Partendo da ecologia, preciseremo che il termine riassume la complessità dei fattori ambientali abiotici (luce, clima, suolo) e biotici (biostrategie, competizione, impollinazione, dispersione, predazione, simbiosi ecc.), che manovrano il palcoscenico della vita di ogni specie. È un concetto di carattere astratto, impostato sulla singola specie (autoecologia), ma estendibile anche alle comunità di specie nel loro insieme, cioè alla vegetazione (sinecologia). Questo aspetto non viene trattato nella presente voce, perché estraneo agli scopi del volumetto, anche se è necessario precisarlo, perché la confusione sull’argomento regna tuttora sovrana. L’habitat invece, che ci interessa da vicino, identifica la tipologia fisionomica e strutturale dell’ambiente di crescita della specie, il quale può essere facilmente riconosciuto attraverso una combinazione di pochi elementi descrittivi, del tipo: boschi umidi, brughiere, torbiere, pascoli aridi, prati, campi, incolti, vallette nivali, forre, sponde, calanchi, alvei, macereti calcarei, rupi e muri, macchie su silice, garighe, sabbie litoranee, scogliere ecc. Questo dato fornisce una visione concreta di dove cresce la pianta, elemento di primaria importanza anche nella ricostruzione degli eventi di intossicazione e nell’informazione mirata a prevenire le facilonerie del “fai da te”. Per quanto riguarda la distribuzione geografi ca è bene ricordare che ogni specie occupa sul pianeta una determinata porzione di spazio come risultato dell’espansione naturale dei suoi popolamenti (areale primario); a questa spesso si sovrappongono una o più successive espansioni causate dall’uomo (areale secondario). Un areale primario rifl ette la storia naturale della specie, mentre un areale secondario rende conto di quanto la specie sia stata e sia di fatto in grado di uscire dalla sua patria conquistando terreno, sotto lo stimolo diretto o indiretto di Homo sapiens (Galasso et al., 2008; Celesti-Grapow et al., 2010). Dalle presenti considerazioni sono esclusi i culta (Hetterscheid & Brandenburg, 1995), cioè piante esistenti solo in coltivazione (per esempio il granoturco) le quali, proprio in conseguenza della loro domesticazione, non sono più capaci di riprodursi e diffondersi in modo autonomo, men che meno in natura. Dobbiamo ancora considerare un punto eticamente importante: la rarità/vulnerabilità delle specie in natura. Vi sono specie rare per il fatto di avere un areale molto piccolo e circoscritto (endemiti locali), le quali passano bene o male inosservate ai non addetti ai lavori, perché vivono più che altro arroccate su pareti rocciose irraggiungibili e non sono minacciate da aggressioni ambientali. Altre specie, invece (purtroppo molte), sono rare in conseguenza della frammentazione del loro areale, un fenomeno generale e diffuso, in costante progressione a partire dalla metà dello scorso secolo, che comporta la distruzione degli habitat. Le più sensibili si sono dimostrate quelle degli habitat umidi alle quote medio-basse, particolarmente di pianura, dove già da tempo sono scomparse o in via di minacciosa rarefazione entità di antico impiego medicinale come Acorus calamus L. (Acoraceae), Persicaria amphibia (L.) Delarbre (Polygonaceae), Symphytum offi cinale L. (Boraginaceae) e Teucrium scordium L. (Lamiaceae) o alimentare come Cirsium oleraceum (L.) Scop. (Asteraceae), Helosciadium nodifl orum (L.) W.D.J.Koch (Apiaceae) 43 e Apium graveolens L. (sedano selvatico, Apiaceae). In tali precarie condizioni si trovano pure i venefi ci ranuncoli acquatici a fi ore bianco (Ranunculus L. sect. Batrachium DC.), qui trattati in apposita scheda. Si ha così che il mughetto (Convallaria majalis L.), pianta a distribuzione circumboreale passante per l’Italia centro-settentrionale, proprio nel nostro territorio si è fortemente rarefatto. Un altro esempio fra le specie velenose riportate in questo testo è la belladonna (Atropa bella-donna L.), distribuita sui monti della Regione Mediterranea (inclusi i versanti meridionali delle Alpi), che predilige le schiarite e i margini dei boschi di faggio. A causa dell’espansione urbanistica nella fascia montana dei nostri rilievi, molti popolamenti della specie sono stati cancellati e la belladonna, un tempo relativamente comune, è ora da considerarsi entità rara. Fra le specie selvatiche alimentari ricompare lo stesso problema, anche perché qui si aggiunge il danno della raccolta, spesso eccessiva e incontrollata, nonostante le disposizioni di legge al riguardo (per le piante officinali: Legge 6 gennaio 1931, n. 99 “Disciplina della coltivazione, raccolta e commercio delle piante officinali”, Regio Decreto 26 maggio 1932, n. 772 “Elenco delle piante dichiarate officinali” ed eventuali leggi regionali maggiormente restrittive; per le piante alimentari e le specie protette in generale: numerose leggi regionali, ad esempio, tra le più “evolute”, la legge regionale della Lombardia 31 marzo 2008, n. 10 “Disposizioni per la tutela e la conservazione della piccola fauna, della fl ora e della vegetazione spontanea”).

Aspetti tossicologici

Vengono descritte le proprietà tossicologiche della specie, con riferimento ai metaboliti secondari (alcaloidi, glicosidi, ossalati ecc.) responsabili delle diverse risposte da parte dell’organismo umano e, dove noto, anche di altre specie animali. Dal punto di vista clinico sono riportati i sintomi dell’avvelenamento, la loro evoluzione, l’esistenza o meno di antidoti specifici e la terapia del caso. Quando ritenuto utile, i dati tossicologici di altre specie vengono raffrontati con quelli della specie in argomento, specialmente se esistono concrete possibilità di incontro anche per le prime. In caso di specie atossica (commestibile), possono essere ugualmente fornite indicazioni sul comportamento da tenere in relazione al quantitativo consumabile e alle modalità d’impiego e preparazione, perché non di rado piante consumate correntemente senza danno (come il prezzemolo, il basilico e l’alloro), possono diventare tossiche, talora in modo serio, a seguito di un uso scorretto o di abuso.

Note

In questa voce trovano spazio osservazioni di varia natura relative alla specie trattata, che possono abbracciare il campo storico, aneddotico, filologico, gastronomico, etnobotanico, curiosità e altro, ma anche precisazioni e dettagli normativi o scientifici di natura sistematica, tassonomica, biogeografica ed ecologica.

Le altre specie italiane

Nel caso in cui la scheda si riferisca a una collettività di specie intestata o meno a quella più conosciuta del gruppo, vengono qui riportate in ordine alfabetico tutte le altre entità presenti in Italia, delle quali è importante sapere l’esistenza. Infatti, in mancanza di dati tossicologici, si ha ragione di ritenere che il possesso di certi metaboliti secondari sia condiviso (sinapomorfi a), magari in misura disuguale, tra tutti i componenti di un gruppo di specie affini, facente capo a una pianta notoriamente tossica (vedi, per esempio, Colchicum autumnale L. e le altre specie del genere Colchicum L.).

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